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E’ la fiera del “non nel mio cortile”: ma occorre rendersi conto che da più di quarant’anni il deposito nazionale è in Piemonte

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Fino al gennaio scorso la quasi totalità degli italiani credeva che il problema dell’«eredità nucleare» fosse stato risolto: ci sono stati due referendum (nel 1987 e nel 2011), le centrali sono spente da più di trent’anni, capitolo chiuso. E allora perché si è tornati a parlare di nucleare? Perché il materiale radioattivo – che conserva la sua pericolosità per secoli, in alcuni casi per millenni – lasciatoci dagli “scienziati” del secolo scorso da qualche parte va pur messo, e perché tuttora in Italia – per diagnosi mediche o per usi industriali – un po’ di materiale radioattivo lo si produce ancora. E quindi occorre trovare – «ce lo impone l’Europa», che ha aperto una procedura di infrazione nei confronti dell’inadempiente Italia, e ce lo dice soprattutto il buonsenso – un sito in cui costruire un deposito per immagazzinare tutto questo materiale, che oggi in parte è provvisoriamente stoccato in vari impianti nel nostro Paese e in parte si trova all’estero (in Inghilterra e in Francia, là inviato con contratti onerosissimi che comunque ne prevedono il ritorno in Italia).

A gennaio, alla vigilia dell’Epifania, è stata finalmente pubblicata – con anni di ritardo – la Cnapi, Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee per ospitare il Deposito Nazionale, redatta da Sogin sulla base di criteri tecnici e di sicurezza noti fin dal 2014 (la “Guida tecnica n. 29” di Ispra). La Cnapi individua sul territorio nazionale 67 siti potenzialmente idonei ad ospitare il Deposito, ed è da quel momento che nel Paese si è scatenato il canaio: in 67 aree – ricadenti ciascuna su uno o più Comuni – molti sindaci, supportati da parlamentari, consiglieri provinciali e regionali e altre figure di contorno, hanno gridato al golpe, hanno lamentato la «mancata preventiva informazione», la «mancata condivisione con i territori», eccetera.

Tutta questa gente, magari anche animata da ottime intenzioni, si è svegliata con più di un decennio di ritardo. La norma che prevede dettagliatamente il percorso per l’individuazione del sito in cui costruire il Deposito Nazionale, infatti, è del 2010 (il decreto legislativo 31, redatto ed emanato del Governo Berlusconi), e la sua ratio è questa: prima si determinano – con criteri esclusivamente tecnici e di sicurezza – quali potrebbero essere le aree idonee, poi si apre la fase di consultazione pubblica con la raccolta delle osservazioni di enti e cittadini e la convocazione di un Seminario nazionale. Quindi tutti coloro – compresi esponenti di partiti che avevano sostenuto quel Governo – che in questi sei mesi si sono stracciati le vesti per «la dittatoriale imposizione dall’alto» ecc. hanno semplicemente dimostrato la loro ignoranza della legge. Primo, per la tempestività: se quel decreto non andava bene potevano dirlo undici anni fa. Secondo, nel merito; perché non è vero che la norma non preveda «un percorso condiviso, partecipato e trasparente»: lo prevede eccome, ma soltanto dopo l’esclusione – una necessaria “scrematura tecnica” – di tutti quei territori che non hanno le caratteristiche per ospitare il Deposito. Sarebbe stato inutile, infatti, coinvolgere preventivamente tutta Italia quando il 95% del territorio nazionale non è idoneo. Purtroppo, però, abbiamo una classe politica che in gran parte parla senza conoscere le leggi, al solo scopo di ottenere nel proprio bacino elettorale il consenso di qualcuno ancor più disinformato (e sono tanti).

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Comunque. Da quel 5 gennaio il Parlamento si è mosso per tentare di modificare il decreto. In parte c’è riuscito: considerata l’emergenza sanitaria, il termine per presentare le osservazioni alla Cnapi è stato allungato da 60 a 180 giorni dalla pubblicazione; ed è per questo che la data di consegna è slittata ai primi di luglio, e tutti in questi giorni si stanno affannando per completarle e inviarle. Prorogata anche la convocazione del Seminario nazionale, che Sogin – secondo l’attuale formulazione del decreto – dovrà convocare entro 240 giorni dalla pubblicazione della Cnapi, e quindi quest’autunno.

La Camera dei Deputati ha poi tentato un altro colpo: a metà aprile ha approvato, a larga maggioranza, una mozione a prima firma Molinari (Lega) che i parlamentari di pressoché tutti gli schieramenti hanno sbandierato come una propria vittoria. Ora: una mozione – lo specifichiamo ad uso dellla classe politica ignorante, perché nei mesi scorsi anche su questo punto abbiamo letto delle bestialità – non ha alcun valore normativo: è uno strumento di indirizzo politico attraverso il quale il Parlamento (o uno dei suoi rami) dà al Governo indicazioni sul comportamento da tenere o sulle misure da prendere per affrontare una determinata questione. È un atto politicamente rilevante, certo, ma che – attenzione – non comporta vincoli giuridici per il Governo, che può assumersi la responsabilità politica di comportarsi diversamente dall’indirizzo indicato. Ad oggi – sono trascorsi due mesi e mezzo – il Governo non ha modificato la legge sulla base di quanto richiesto nella mozione. Occorre quindi distinguere – cosa che molti non sono in grado di fare – tra atti normativi cogenti e pie intenzioni.

Questa mozione è costituita da due parti; la prima è un’accozzaglia di inutili ovvietà, che ribadiscono quanto già previsto dal Decreto del 2010; la seconda è il tentativo di inserire nella valutazione, oltre ai criteri tecnici e di sicurezza, una serie di altri criteri, la cui ratio è ben diversa: “non nel mio cortile”. Ne è quindi venuta fuori una gara a scansarsi, dove ciascuno ha tentato di inserire un nuovo “paletto” per evitare che il Deposito venga costruito nel proprio bacino elettorale. Infine la mozione – siccome i parlamentari più scafati sanno che le scorie non si muoveranno da dove sono ora per almeno qualche altra decina d’anni – chiede di rivedere i criteri con cui vengono annualmente assegnate le “compensazioni” ai territori che le ospitano provvisoriamente (c’è sempre qualche sindaco che punta ad incassare un po’ di soldi attualmente incamerati dal vicino…), e di garantire tempi più rapidi nella loro erogazione. Insomma: discutiamo pure, ma intanto pagateci.

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Nella stesura delle osservazioni alla Cnapi c’è anche chi sta facendo un lavoro serio, certo: come coloro che in questi mesi hanno verificato se e come i criteri – “di esclusione” e “di approfondimento” –  della Guida di Ispra siano stati correttamente applicati da Sogin nella redazione della Carta, o se l’ordine di idoneità assegnato da Sogin tra i 67 siti abbia una valida ragion d’essere. Di fatto, comunque, la congerie di osservazioni che sta pervenendo a Sogin in questi giorni è una sommatoria di “non nel mio cortile” («io in quei campi coltivo i peperoni», «io lì ho i vigneti», «io sono vicino a un sito Unesco», ecc.), che potrebbe avere come unico risultato – se tutte fossero accolte – quello di bloccare la procedura, perché risulterebbe che in Italia nessun sito è idoneo ad ospitare il Deposito.

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Ecco quindi saltar fuori il salvatore della patria: il sindaco di Trino, l’unico che – facendo quattro conti su quanto il suo Comune già oggi incassa quale “compensazione” per le scorie che ha sul territorio, e su quanto potrebbe incassare se ne accogliesse altre – si è detto disponibile ad ospitare il Deposito. Si spiega quindi la “manina” che nella mozione parlamentare di aprile ha inserito l’impegno «a valutare l’accoglimento delle eventuali manifestazioni di interesse pervenute dai Comuni e dagli altri enti territoriali che intendono ospitare il deposito unico dei rifiuti radioattivi». Entusiasmo degli altri sindaci (e di alcuni parlamentari della Lega): «lo prende lui! lo prende lui!». Piccolo particolare: la stessa mozione dice anche che queste manifestazioni di interesse possono pervenire «purché vengano rispettati i criteri di esclusione e di approfondimento già in vigore»; ma Trino – come verificato da Sogin – non li rispetta, checché ne dica il suo sindaco. Quindi: nisba.

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La novità più recente è di qualche giorno fa: la Giunta Regionale del Piemonte ha annunciato di aver approvato (ma nessuno, nemmeno i consiglieri regionali, l’ha ancora visto) un “documento tecnico di 130 pagine” che dimostrerebbe come i siti “potenzialmente idonei” individuati in Piemonte in realtà non rispondano ai requisiti di idoneità. Pochi minuti dopo è arrivato in tutte le redazioni un comunicato del parlamentare Alessandro Giglio Vigna (Lega) entusiasta perché, annuncia, «non sarà in Piemonte il deposito di scorie nucleari!».

Probabilmente l’esultante Giglio Vigna ignora che già ora il vero deposito nazionale di scorie nucleari è in Piemonte: è a Saluggia e a Trino, in provincia di Vercelli, dove da almeno quarant’anni – in due siti da tutti riconosciuti come non idonei, in riva alla Dora Baltea e al Po – sono immagazzinati 2,4 milioni dei complessivi 3 milioni di GigaBecquerel che costituiscono l’eredità nucleare italiana. E forse non si rende conto che, a forza di dire “no” ovunque, le scorie continueranno a restare pericolosamente qui, in Piemonte, nei siti “temporanei” di Saluggia e Trino.

La verifica dei requisiti di idoneità dei siti individuati da Sogin nella Cnapi è necessaria, ma deve essere funzionale al proseguimento del percorso per la realizzazione del Deposito, che va fatto. Da quel che si sente e si legge, invece, la sfilza di «costruitelo altrove, ma non da me» rischia di contribuire a rinviare ancora la soluzione del problema, continuando così a mantenere sine die il materiale radioattivo in aree oggettivamente a rischio: anche e soprattutto qui in Piemonte.

 

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